Farmaci: una questione di genere

La ricerca per sviluppare farmaci sicuri ed efficaci ha troppo a lungo trascurato le donne. Eppure, gli effetti di un farmaco su un organismo variano in base al genere. La letteratura scientifica internazionale sta finalmente dando peso alle differenti risposte terapeutiche fra uomini e donne ed è in corso un cambiamento per diffondere la cultura di genere in ambito farmaceutico. Intervista a Flavia Franconi (Dipartimento di scienze biomediche dell’Università di Sassari), presidente del Gruppo Italiano Salute e Genere (GISeG).
Prof.ssa Franconi, in quali fasi dello sviluppo del farmaco si osserva maggiore disparità di genere? Il genere femminile è da sempre stato trascurato in tutte le fasi di sperimentazione del farmaco. Già in fase preclinica – quando si testano gli effetti di una sostanza sull’organismo (farmacocinetica, farmacodinamica) – il modello sperimentale animale di genere maschile è nettamente più utilizzato rispetto a quello di genere femminile. In media, il rapporto è di 5 topi maschio contro 1 topo femmina. Similmente, in fase clinica, le donne sono molto meno rappresentate rispetto agli uomini, soprattutto nelle prime fasi della sperimentazione, quelle in cui si controlla in che modo l’organismo assorbe e metabolizza il principio attivo (farmacocinetica). A rallentare la sperimentazione sulle donne sono state, tra l’altro, due tragedie avvenute negli anni ‘50 e ’60. Il talidomide – somministrato a donne in gravidanza per contrastare la nausea – ha causato gravi malformazioni in numerosi bambini. Il dietielstilbestrolo – un estrogeno di sintesi usato come antiabortivo – è invece poi risultato cancerogeno, soprattutto per la prole femminile. Questo deve fare riflettere sull’importanza della farmacovigilanza: si rischia molto a non fare le opportune analisi di genere sin dalle primissime fasi della sperimentazione, prima dell’immissione in commercio di una nuova molecola. Solo recentemente la sperimentazione che coinvolge le donne è aumentata negli studi di fase III – quando si valuta l’efficacia terapeutica di una sostanza su una popolazione di malati. In alcuni ambiti, però, le donne continuano a non essere sufficientemente arruolate, per esempio nell’oncologia non genere specifica (cancro del colon o del polmone) o nelle malattie cardiovascolari – tra le principali cause di morte nel mondo occidentale.
Quali sono gli effetti sulla salute e sull’economia generale? Quando si mette in commercio un principio attivo la cui farmacocinetica è stata testata solo sull’uomo, e questo avviene se non si arruolano le donne, si rischia di compromettere gravemente la salute della popolazione femminile. Di fatto, le donne sono ricoverate molto più spesso rispetto agli uomini per eventi avversi ai farmaci e questo influisce pesantemente sull’economia del sistema sanitario nazionale. Praticare medicina di genere significa perciò salvaguardare la salute di tutti e ciò può aumentare la sostenibilità delle cure.
Si parla sempre di più delle differenze di genere in medicina. Quali sono i motivi di questa crescente presa di coscienza?
Da un lato è in atto un’opera di sensibilizzazione a cui hanno preso parte medici e giornalisti. Abbiamo calcolato che il progetto gender dissemination promosso dal GISeG ha raggiunto dieci milioni di persone in Italia. Ora che il sistema nazionale sanitario è stato allertato, i medici vogliono essere informati e a loro volta informare del problema. Questo è il primo e fondamentale step per arrivare alla pratica della medicina di genere. Non solo, nel frattempo la ricerca ha fatto passi da gigante, trovando sempre più differenze nella risposta ai principi attivi. Era noto da tempo che, a causa delle differenze di metabolismo, il viaggio di un farmaco dentro l’organismo non è lo stesso per l’uomo e per la donna; quello che scopriamo oggi è che le disuguaglianze interessano anche i targets – cioè i bersagli dove il farmaco va a funzionare. Ciò è dovuto alla diversa fisiologia cellulare fra i generi. Così, con il procedere della ricerca, siamo destinati a vedere aumentare sempre più le distinzioni fra uomo e donna.
Come ci si sta attrezzando in ambito regolatorio per diffondere la cultura di genere?
A livello mondiale, le autorità regolatorie del farmaco hanno cominciato a rendere obbligatoria la sperimentazione preclinica e clinica in entrambi i generi, inoltre le case farmaceutiche sono chiamate a elaborare i dati separatamente, così da evidenziare le eventuali differenze. In questo senso, i Paesi più avanti sono gli USA, il Canada e l’Australia. In Europa si è ancora un po’ indietro: si fa presente di tenere conto del genere femminile ma ci sono meno raccomandazioni rispetto agli USA. Oltre all’istituzione di nuovi protocolli, però, bisogna fare sì che le donne siano messe nelle condizioni di poter partecipare agli studi clinici: anche per il loro ruolo di madri e caregivers, infatti, hanno meno tempo a disposizione rispetto agli uomini. Bisogna perciò trovare dei sistemi per andare incontro alle necessità oggettive della donna, per esempio inviando personale infermieristico per una “sperimentazione a domicilio”. Va aggiunto, però, che oltre all’analisi differenziata della popolazione femminile e maschile, si deve ulteriormente procedere a una stratificazione per classi di età, essendo queste ultime fonte di ampia variabilità di risposta alle terapie. La medicina di genere, dopotutto, è il primo passo verso una medicina ad personam, attenta alle necessità del singolo individuo.